Sarajevo, a trent’anni dall’assedio la guerra in Ucraina riaccende vecchie e nuove paure

Kiev e le città ucraine come Sarajevo. La guerra di oggi come drammatico ritorno di quanto successo negli anni Novanta alle porte di casa nostra, tra nazionalismi, morti di civili inermi, violenze di ogni genere. A conferma che i “mai più” di allora sono stati tante, troppe volte disdetti nei fatti. La capitale della Bosnia, “culla” dell’impegno per la pace delle Acli veneziane, è tornata in mente a molti in queste settimane. Anche perché, triste coincidenza della storia, il 5 aprile è ricorso il trentennale dell’inizio dell’assedio della città, che si sarebbe concluso soltanto 3 anni e 11 mesi più tardi: il più lungo assedio della storia moderna.

Allora è spontaneo tornare ancora una volta nel cuore dei Balcani, per comprendere gli strascichi che la guerra lascia ancor oggi. E per capire come i sarajeviti vivono i fatti di questi giorni. “Il 5 aprile – ci racconta Daniele Bombardi, coordinatore di Caritas Italiana per il Sud Est Europa – non è ovviamente una data come le altre. Anche perché il 6 aprile si celebra la liberazione della città dai nazisti al termine della seconda guerra mondiale. Sono due giorni per ricordare, in modo diverso, le sofferenze vissute da Sarajevo e dai suoi abitanti. Detto ciò, il trentennale è visto con più interesse dall’estero: qui ci sono state le consuete commemorazioni, ma nulla di più”.

L’attenzione dei sarajeviti, in effetti, è concentrata su altri aspetti, a partire dalle tensioni mai sopite tra le diverse etnie, frutto di una pace che non si è mai veramente concretizzata. “L’endemica crisi politica della Bosnia si è ulteriormente acuita negli ultimi mesi, con le minacce di secessione della componente serba, ovviamente spalleggiata da Belgrado. Anche perché a ottobre sono in programma le elezioni e i toni sono già esasperati. Lo stesso anniversario dell’assedio non è ovviamente un elemento unificante, perché a farla da padrone sono, oggi come sempre, i nazionalismi e l’odio interetnico”.

In questo quadro, la guerra in Ucraina è ovviamente benzina sul fuoco. “L’inizio dei combattimenti ha fatto riemergere con forza un trauma mai veramente risolto. La gente è andata nel panico, mettendo in atto comportamenti irrazionali come la corsa a fare scorte. È umano: per noi tutti è spontaneo fare paralleli tra Sarajevo e Mariupol, tra Bucha e Srebrenica. Figurarsi per chi quei fatti li ha vissuti sulla propria pelle, senza peraltro poi ottenere vera giustizia. Ciò che però impressiona i sarajeviti è la velocità di questa guerra: mi raccontano che per arrivare al livello di distruzione che vediamo in tv a Sarajevo ci sono voluti 3-4 anni, in Ucraina sono bastate 2-4 settimane”.

Ma anche sul piano istituzionale, il terreno è sempre più scivoloso. “È come se tutti fossero con il fiato sospeso in attesa degli eventi. La Serbia è il paese più filorusso dell’area balcanica. Se in qualche forma Putin “vincerà” la guerra, i separatisti della Republika Srpska potranno far leva sul precedente del Donbass. Se invece la Russia perde, il rischio è che ne escano rafforzate le altre componenti etniche. Insomma, da qualsiasi angolo la si guardi, ci sono molti segnali preoccupanti per il fragile equilibrio su cui la Bosnia si è retta fino ad oggi”.

I Balcani, attraversati dall’omonima rotta percorsa da migliaia di migranti in viaggio verso l’Europa, sono un ottimo osservatorio anche per riflettere sulla questione profughi.  “Penso sia naturale – sottolinea Daniele – l’empatia per i profughi ucraini: è umano provare più vicinanza per chi, da molti punti di vista, ti somiglia di più. Ma è inaccettabile che questo si traduca, a livello istituzionale, in una diversità di diritti e trattamento tra migranti provenienti da paesi diversi. Questo è il vero scandalo. Vorrei sbagliarmi, ma quello che vediamo ora è molto simile a quanto successo nel 2015 con i profughi siriani. All’inizio, quando arrivavano le persone più benestanti e qualificate che potevano permettersi di scappare in fretta, abbiamo spalancato le porte. Poi, quando sono cominciati ad arrivare i più fragili, quelle stesse porte sono state chiuse a doppia mandata. Anche nel caso dei profughi ucraini, l’ondata solidale dal basso a cui stiamo assistendo è di sicuro un bel segnale. Ma è fondamentale che i governi la accompagnino con la costruzione di un sistema di accoglienza istituzionale. Altrimenti nel giro di sei mesi rischiamo di veder emergere tensioni e rabbia sociale”.  

A proposito di istituzioni, è evidente un’altra diversità di trattamento: da un lato la richiesta ucraina di adesione all’UE accolta con procedure accelerate, dall’altro tanti paesi dell’area balcanica fermi da anni nell’anticamera dell’Unione. “Magari siamo difronte ad un passaggio storico, ma sono scettico che alle parole seguano i fatti, anche nel caso dell’Ucraina. Eppure proprio la guerra di oggi dovrebbe spingere le istituzioni europee ad agire con lungimiranza politica. Allargare i confini della UE, anche nei Balcani, è fondamentale per integrare questi paesi e sottrarli alle influenze russe, ma anche turche e cinesi. Solo l’integrazione europea può fermare i nazionalismi”.

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